C’è un’ironia amara nel fatto che il carcere sia l’unico luogo in Italia in cui sia ancora in uso il termine passeggio, tanto diffuso nei secoli passati per indicare il rito urbano della passeggiata collettiva.
Marcato da orari ben precisi – la cosiddetta ora d’aria – il passeggio nelle carceri italiane è la principale tra le poche pratiche liberatorie concesse ai detenuti. È l’alternativa fondamentale alla chiusura in cella, che perpetua l’antica logica della gabbia anziché affrontare pienamente la detenzione in termini di rieducazione. Così, due volte al giorno, al mattino e al pomeriggio, le porte delle celle si aprono e chi le abita può uscire all’aria aperta, benché tra le alte mura di un cortile.
Il passeggio nelle prigioni italiane è una pratica antica. Il Codice Teodosiano (V secolo) prima e la Legge Romana di Udine (VIII o IX secolo) poi lo prescrivevano ogni domenica e nel carcere fiorentino delle Stinche nel sedicesimo secolo era ‘observata consuetudine di trarre ogni dì de mattina una volta e prigioni di carcere et tenergli mezza hora incirca nella corte di dette Stinche per dar loro un poco di ricreazione, et affinche decte prigioni si possiao cerchare et purghare da ogni immonditia’.1
Da allora, il diritto al passeggio ha progressivamente trovato un espresso riconoscimento negli ordinamenti penitenziari italiani. Tra i più recenti provvedimenti di legge, quello entrato in vigore il 24 agosto del 1975 consente ai detenuti ‘di permanere all’aria aperta per un tempo non inferiore alle quattro ore al giorno’ e che soltanto per ‘giustificati motivi’ la permanenza all’aperto possa essere ridotta fino a due ore al giorno con provvedimento del direttore dell’istituto. Prevede inoltre che gli spazi destinati alla permanenza all’aperto debbano offrire ‘possibilità di protezione dagli agenti atmosferici’ e che la permanenza all’aria aperta sia effettuata in gruppi e dedicata, se possibile, ad esercizi fisici.2 Nel novembre 2013, il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, annunciò il passaggio a otto ore di uscita al giorno dalle due allora attuali, provvedimento poi inserito nella circolare 3663/6113 inviata dal ministero nel 23 ottobre 2015 ai direttori degli istituti penitenziari. Tale decisione recepisce con molto ritardo le raccomandazioni europee che il Secondo Rapporto del Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti (CPT) aveva espresso nel 1992.3
É un diritto dei detenuti che la normativa vigente in materia di ora d’aria sia applicata in modo da garantire loro la possibilità di restare all’aperto per il tempo indicato e non conteggiando invece in tale periodo – come a volte accade in carceri italiane – i tempi di trasferimento da e per le celle.
Il Museo del Camminare presenta questa antologia di testi dedicati al passeggio in carcere e scritti principalmente da detenuti o ex-detenuti. Si tratta di un work in progress, a cui chi ha esperienza diretta o indiretta del carcere è invitato a contribuire.
Ne’ primi giorni fu stabilito che ciascuno di noi avesse, due volte la settimana, un’ora di passeggio. In seguito questo sollievo fu dato un giorno sì e uno no; e più tardi ogni giorno tranne le feste. Ciascuno era condotto a passeggio separatamente: fra due guardie aventi schioppo in ispalla. Io che mi trovava alloggiato in capo del corridoio, passava, quando usciva, innanzi alle carceri di tutti i condannati di stato italiani, eccetto Maroncelli, il quale unico languiva dabbasso. – Buon passeggio! mi susurravano [sic] tutti dallo sportello de’ loro usci; ma non ma era permesso di fermarmi e salutare nessuno. Si discendeva una scala, si traversava un ampio costile» e s’andava sovra un terrapieno situato a mezzodì, dande vedeasi la città di Briin e molto tratto di circostante paese. Nel cortile suddetto erano sempre molti dei condannati comuni, che andavano o venivano dai lavori, o passeggiavano in frotta conversando. Fra essi erano parecchi ladri italiani, che mi salutavano con gran rispetto, e diceano tra loro : — Non è un birbone come noi, eppure la sua prigionia è più dura della nostra. […] Io infatti, dopo essere dapprima migliorato di salute, languiva per la scarsezza di nutrimento, e nuove febbri sovente m’assalivano. Stentava a strascinare la mia catena fino al luogo del passeggio, e là mi gettava sull’erba, e vi stava ordinariamente finchè fosse finita la mia ora. [nel 1824]: Nuovi ordini vennero pel mantenimento della più severa disciplina. Quel terrapieno che ci serviva di passeggio fu dapprima cinto di steccato, sicché nessuno, nemmeno in lontananza con telescopi, potesse più vederci; e cosi noi perdemmo lo spettacolo bellissimo delle circostanti colline e della sottoposta città. Ciò non bastò. Per andare a quel terrapieno, conveniva attraversare, come dissi, il cortile, ed in questo molti aveano campo di scorgerci. A fine di occultarci a tatti gli sguardi, ci fu tolto quel luogo di passeggio, e ce ne venne assegnato uno piccolissimo, situato contiguamente al nostro corridoio, ed a pretta tramontana, come le nostre stanze. Non posso esprimere quanto questo cambiamento di passeggio ci affliggesse. Non ho notato tutti i conforti che avevamo nel luogo che ci veniva tolto. La vista de’ figliuoli del soprintendente, i loro cari amplessi dove avevamo veduta inferma ne’ suoi ultimi giorni la loro madre; qualche chiacchera col fabbro, che aveva pur ivi il suo alloggio; le liete canzoncine e le armonie d’un caporale che suonava la chitarra; e per ultimo un innocente amore — un amore non mio , nè del mio compagno, ma d’una buona caporalina ungherese, venditrice di frutta. Ella erasi invaghita di Maroncelli. (Pellico, Silvio, Le mie prigioni, Lugano, 1841, pp. 166-68; 201)
Dalle nove a mezzogiorno capitava l’ora del passeggio: un’ora o dalle nove alle dieci, o dalle dieci alle undici, o dalle undici alle dodici; ci facevano uscire isolati, con la proibizione di parlare e salutare chiunque e si andava in un cortile diviso a raggi con muri divisori altissimi e con una cancellata sul resto del cortile. Eravamo sorvegliati da una guardia issata su un terrazzino dominante la raggiera e da una seconda guardia che passeggiava dinanzi ai cancelli; il cortile era incassato tra muri altissimi e da una parte era dominato dalla bassa ciminiera di una piccola officina interna; talvolta l’aria era fumo, una volta dovemmo rimanere circa mezz’ora sotto uno scroscio di pioggia. (Gramsci, Antonio, Lettera a Tania, Ustica, 19 dicembre 1926 [a proposito dei sedici giorni in isolamento nel carcere di Regina Coeli a Roma nel novembre 1926]
Io non sono migliore né peggiore, credo, di altri, però ho una cicatrice in più: sono andato per anni a camminare, a “passeggiare”, si dice, in un cortile dal quale si sentivano a volte risate altre volte, più spesso, pianti di bambini. (Sofri, Adriano, Piccola Posta, Il Foglio, 19 settembre 2018)
Mezz’ora almeno, o meglio ancora d’un’ora di passeggio quotidiano, […] può benissimo temperare i perniciosi effetti della solitudine. (Ilarione Petitti di Roreto, Carlo, Della condizione attuale delle carceri e dei mezzi di migliorarla, Firenze, Galileiana, 1843, p. 55)
Qui a Santa Maria Maggiore [Venezia] la cosiddetta “aria” non è altro che uno spazio della grandezza di un campo da tennis, circondato però, da alte mura di cemento e filo spinato. In questo piccolo spazio ci possiamo trascorrere 4 ore al giorno, due al mattino e due al pomeriggio. Viene chiamata “aria” solo per il semplice fatto che quel piccolo spazio di cemento è sprovvisto di un tetto. Si prende spesso la decisione di andare all’”aria”, per noia, per stress, per ansia, per scambiare due parole con i compagni o per il semplice bisogno di sgranchirsi le gambe, cosa che assolutamente non si riesce a fare in una cella di cinque metri per tre divisa con almeno altre due persone. […] Nella nostra ed ipotetica “aria” alla fine non c’è aria ma solo sofferenza, ozio e ci si sente comunque chiusi in una grande gabbia. Per almeno il 70% degli assidui frequentatori dei passeggi serve sicuramente ad imparare qualcosa in più e per arricchire sì un bagaglio, ma di gran lunga differente da quello culturale, che si avvicina, per molti aspetti, ad un bagaglio delinquenziale, seppur solo a livello teorico. (Sergio P., Lettere alla direzione, L’impronta, I, 4, 2011)
Un’ora d’aria compressa, si lavora in condizione di stress fortissimo, perché basta una parola detta male, uno spintone, una pestata a un piede fatta anche per caso da un’etnia a un’altra […] sfido chiunque a risolvere una situazione di rissa. È molto molto molto pericoloso. (intervista a guardia carceraria, Carcere Santa Maria Maggiore di Venezia, Next New Media, URL: http://www.youtube.com/watch?v=UM3JwKUiybI)
L’orologio segna le otto e mezzo del mattino, l’assistente fa il giro delle celle per far scendere chi vuole fare le due ore d’aria, per le altre due ore bisognerà attendere l’una e mezza del pomeriggio. Il cortile dell’area passeggi è di pochi metri quadri, è tutto di cemento ed è privo di verde, a stento riesce a contenere i numerosi detenuti intenti a sgranchirsi le gambe, si cammina tutti insieme compiendo un cerchio che ruota in senso antiorario. Sono recluso da quasi due anni, e devo dire che mi sono stufato e che provo noia nello scendere in quel buco afoso e polveroso d’estate e gelido e scivoloso d’inverno, ma purtroppo non si può rimanere sdraiati in cella ventiquattro ore su ventiquattro, sicuramente cadrei in un profondo stato di depressione che potrebbe rendermi apatico, asociale o peggio ancora indurmi all’atto estremo del suicidio. Sfruttare le quattro ore giornaliere e i tre quarti d’ora di palestra per due volte a settimana non è il massimo, ma è necessario, non c’è altra scelta, bisogna sfruttare il poco tempo concesso per tentare di tenere il fisico un po’ allenato, evitando così che i muscoli si possano atrofizzare. L’attività fisica è essenziale per prevenire problemi di natura cardiovascolare e circolatoria, praticare un po’ di footing fa diminuire la pancia, che troppe volte viene riempita senza appetito, il sudore fa espellere le tossine, in poche parole correre fa bene al corpo e alla mente, perché si scaricano ansia, nervoso, stress e tutte le cose negative che assimiliamo durante la carcerazione. Uscire dal “gabbio”, anche se per poco tempo, serve a spezzare la noiosa e quotidiana routine dell’angusta cella che spesso e volentieri non fa altro che farmi rimuginare sugli errori commessi e che mi hanno condotto in questo luogo. (Mahdi, Difficile ma necessario, L’Impronta, III, 3, 2013, p. 19)
Scontare una pena per gli errori commessi è giusto, stare rinchiusi per venti ore al giorno in un buco senza fare nulla è sbagliato e non serve a nulla, per questo motivo provo malessere e rabbia quando una persona pronuncia la parola “rieducare”. Farsi la galera in queste condizioni rende gli uomini più simili a bestie e non ci si rende conto che cos. si rischia di rimettere in libertà individui più incattiviti e peggiori di quando hanno varcato la soglia del carcere. Pensare che con questi metodi si possa consegnare alla società degli individui migliori è da pazzi, qui dentro l’unico mestiere che si può. imparare bene è quello del criminale. Sono pochi i detenuti che durante l’ora dei passeggi parlano di volersi sistemare con un lavoro onesto, quasi tutti discutono di rapine, furti, truffe, droga e prostitute. La rieducazione non esiste o quasi. Se una persona non vuole cambiare non cambierà mai! (Marcello, Se una persona non vuole cambiare non cambierà mai!, L’impronta, III, 1, 2013, p. 14)
L’unico posto dove l’occhio può godere di un ampio campo visivo è l’area dei passeggi, ecco che qui, anche se per breve tempo, con il muso all’insù si può scrutare un pezzo di cielo, si può osservare il volo planato di un gabbiano oppure la lunga scia di un aeroplano che sfreccia sul mio capo. Purtroppo non posso più beneficiare dell’ora d’aria perché ho iniziato a lavorare all’interno del carcere, gli orari del turno lavorativo mi privano dell’unica possibilità che ho di rilassare e distendere il campo visivo dei miei poveri occhi stressati. Spero che quando arriverà il giorno del mio fine pena, sarò riuscito a conservare un pizzico di vista, me ne basterà giusto quel pochino, per poter vedere e imboccare la porta dell’uscita di S. Maria Maggiore. (Mahdi, Non vedo più una m...osca!, L’Impronta, III, 3, 2013, p. 21)
Quando sei in carcere entri in un mondo nuovo, in una realtà completamente diversa, la tua quotidianità viene stravolta e non è più fatta di attività e programmazione, ma di sconfortante attesa. Sì, si aspetta! Si aspetta sempre qualcosa: la risposta ad una domandina, l’ora d’aria. (Ermanno, Gli effetti preclusi di noi reclusi, L’Impronta, IV, 3, 2014, p. 4)
Quando era l’orario dei passeggi scappavo fuori con qualsiasi condizione di tempo, non mi importava se a uscire ero l’unica, anzi meglio. (Christine, Condannata all’inattività. La desolazione di quelle galere, Centro di Documentazione Due Palazzi, Padova, ottobre 2003, URL: http://www.ristretti.it/testimonianze/pagine/venezia/index.htm)
Mi bastò un’ora di passeggiata lungo un tratto riscaldato dal sole in compagnia della mia sola ombra, per rigenerarmi lo spirito. (Rega, Cosimo, Il ragazzo col cappotto, in Il giardino di cemento armato. Racconti dal carcere, a cura di Antonella Bolelli Ferrera, Roma, Rai Eri, 2014, p. 40)
Ariaaaaaa! Tutti i giorni quest’urlo dell’agente di turno accomuna i circa sessantaquattromila detenuti che affollano le carceri italiane. In due precisi ma differenti orari della giornata, si può usufruire della cosiddetta “aria ministeriale”. Qui a San Vittore rappresenta un’opportunità veramente salutare se si considera che a causa del cronico sovraffollamento, si è costretti a condividere in cinque o sei una cella di dieci metri quadrati. Si può immaginare che cosa accada nel momento in cui le gabbie vengono aperte per consentirci di sgranchire le gambe... Durante questo esercizio giornaliero è possibile acquistare diverse tecniche di passeggio. La più classica è quella del “su e giù”, più diffusa tra i nuovi entrati. L’aggancio a questo trenino va assolutamente evitato poiché si corre il rischio di essere prosciugati da narrazioni infinite sulle modalità dell’ultimo arresto. Poi c’è il “moto rotatorio”, individuale o collettivo. La sua particolarità sta nel senso di marcia, rigorosamente antiorario, ma non c’è una spiegazione logica al riguardo. Personalmente prediligo la rotazione solitaria, in compagnia del mio walkman, che mi mette al riparo dai soliti ansiosi che ti vengono a chiedere consigli giuridici. (Kalle, Storie di ordinaria follia, in A. Bolelli Ferrera, op. cit., p. 232)
Tutto va avanti e indietro, tutto si fa e si disfa, a vanvera. Per esempio: camminare. Intanto, l’aria aperta è una così sparuta concessione che si chiama tecnicamente «aria», ha il suo tempo fisso, l’«ora d’aria» - una bolla di sapone - e il suo cortile obbligato. L’aria aperta del carcere è un’aria chiusa. I suoi avventori sono riservati: niente persone dell’altro sesso, niente bambini, niente animali, salvo qualche volo d’uccello subito spaventato d’esser capitato in un ritaglio di cielo vigilato coi mitra. Guardo i detenuti al passeggio - e me stesso. Camminano: cioè vanno macchinalmente avanti e indietro, da un muro a un altro muro, avendo cura di fare dietrofront un po’ prima di aver esaurito lo spazio (una superstizione, credo) per sgranchirsi: in realtà cedendo a quel viavai smanioso che è di tutti gli animali in gabbia. (Sofri, Adriano, Piccola Posta, Palermo, Sellerio, 1999)
Ieri finalmente, dopo mesi, ho deciso di scendere giù nell’area dei passeggi. Sono sceso dalle otto e mezzo alle dieci e mezzo del mattino, dubito che scenderò per le altre due ore pomeridiane perché fa troppo caldo. Il piccolo cortile in cemento, privo d’ombra, dall’una e mezzo alle tre e mezzo diviene rovente, e per me che soffro molto il caldo, vorrebbe dire andare incontro a morte per asfissia. Comunque, già al mattino l’afa si fa sentire, esco dalla cella che sta al secondo piano del penitenziario, e mi dirigo alle scale che portano al cortile, la discesa agli inferi si compie, mi sono già pentito, ma oramai ci sono e inizio a camminare con passo svogliato. Gli altri detenuti sono stupiti nel vedermi, mi dicono che pensavano fossi uscito ai domiciliari; continuo a camminare percorrendo cerchi e penso che quando uscirò mi dedicherò ai “crop circles” (cerchi nel grano), poi dopo poco, stufo di girare vorticosamente, mi sposto in diagonale come fa l’alfiere nella scacchiera. C’è un gruppetto di detenuti che corre in fila indiana, sono fradici e ansimanti e a giudicare dai loro volti sofferenti, mi viene da pensare: “Questi sono matti! Chi glielo fa fare? Non vedono che stanno per collassare? (Marcello, La mia inattività fisica, L’Impronta, III, 3, 2013, p. 20)
Ho fatto una passeggiata con Umberto. Cioè: si va avanti e indietro da un muro all’altro. Si vira un po’ lontano dal muro, perché i prigionieri dicono che porta male arrivare fino in fondo. Umberto è poco più che un ragazzo, e ha scritto due poesie: una dedicata alla signora uccisa a Napoli, una a un condannato a morte negli Stati Uniti. Ne aveva scritte altre, mi dice, ma non erano vere poesie: pensieri più che altro. Che differenza c’è, chiedo. I pensieri riguardano uno stato d’animo, dice, le vere poesie raccontano qualcosa. Sono in rima. Parliamo dell’importanza di sapere le cose a memoria, per quando si resta soli. Mi dice tutto quello che sa a memoria: il Padre Nostro, ma neanche tutto, tutte le canzoni di Nino D’Angelo, e la nebbia agl’irti colli, perché l’ha messa in musica Fiorello. Rimpiange di non aver avuto pazienza da scolaro. Non è tardi, dico. Gliene insegno una nuova. Tanto gentile e tanto onesta pare. E’ bene che un italiano sappia a memoria tanto gentile e tanto onesta pare. Gliela dico, e gli spiego l’essenziale. Del resto imparare a memoria è bello anche se non si capisce tutto. Che cos’è un sonetto eccetera. Chissà se gli sembrerà un piccolo imbroglio che, dovendo fare rima con “venuta”, uno scriva “vestuta”, invece che vestita. Gli piace che la dolcezza arrivi al cuore passando attraverso gli occhi. Poi la ridiciamo, in modo da impararla. Finché la guardia, triste muezzin delle nostre passeggiate, grida: “Si chiudeee”. Una poesia in più. (Sofri, Adriano, Piccola Posta, Il Foglio, 2 agosto 1997)
Ma invece tu mi scrivi annunziandomi una lettera di Giulia; poi mi riscrivi annunziandomene un’altra; poi ricevo una tua lettera (e le tue lettere mi sono molto care), ma non ricevo le lettere di Giulia e ancora non le ho ricevute. Ebbene, tu non sai rappresentarti la mia esistenza, qui in prigione. Non immagini come io, ricevendo l’annunzio, aspetti ogni giorno e abbia ogni giorno una delusione e ciò si ripercuote su tutti i minuti di tutte le ore di tutte le giornate; come io legga e ogni momento salti su dalla lettura e mi metta a passeggiare su e giù e pensi e ripensi e almanacchi e dica spesso: Ah, quella Tania, quella Tania! (Gramsci, Antonio, Lettera a Tania, 25 aprile 1927, in Lettere dal carcere, 1926-1937, Palermo, Sellerio, 1996, ebook)
A volte per tentare di vivere devi saper morire. Ed io inizio a morire appena mi sveglio al mattino. Normalmente mi sveglio all’alba. Non mi alzo subito. Sto un po’ abbracciato con il mio cuore. A volte vado all’aria a fare quattro passi. Spesso invece rimango in cella. Aspetto che passi la guardia della posta. E rispondo alle numerose lettere che ricevo. La sera mi cucino qualcosa. Poi inizio a fare su e giù per la cella per aiutare la digestione. E passeggio. Avanti e indietro. Tre passi avanti e tre indietro. Quando sono abbastanza stanco, mi sdraio sulla branda. (intervista a ergastolano, in Musumeci, Carmelo, Biografie devianti, tesi di laurea, Università degli studi di Padova, Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata, AA 2015-16, p. 46)
Nel carcere è come una festa, dura due ore. Tutti si salutano con abbracci e baci e poi si va avanti e indietro a gruppi, oppure si gira intorno al muro che ci circonda e che col passare del tempo sembra diventare sempre più alto. I tanti bla, bla, bla… ti rimbombano nella testa. A volte mi soffermo dalla finestra della mia stanza a guardare quelle braccia e quelle mani gesticolare. Quante storie di vita, o di malavita, che s’intrecciano tra loro… Ognuno si esprime dando sfogo alle proprie “ragioni”, ma spesso, troppo spesso, alla propria follia. (Villella, Alfonso, I pensieri dell’anima, in Siamo noi, siamo in tanti. Racconti dal carcere, a cura di Antonella Bolelli Ferrera, Roma, Rai Eri, 2012)
In questo cazzo di reparto anche l’ora d’aria non conviene farla, visto che è poco più grande di una cella. Meglio non andarci, evito di sentirmi ancora di più un animale in gabbia. [...] Oggi ho deciso di uscire all’aria nella gabbia, esco ed ecco gli altri compagni che fino a quel momento avevo solo intravisto o sentito parlare ad alta voce. Siamo così fitti che non c’è spazio neanche per camminare [...] Per adesso mi accontento di questo piccolo spazio, certo è angusto ma sufficiente per sopravviverci. L’impegno principale è quello di obbligarsi a camminare su e giù, percorrendo interamente i cinque passi che il perimetro ti permette, coprendo chilometri immaginari, unico sfogo possibile alla nevrosi. (De Masi, Francesco, Quasi mi veniva da ridere, in A. Bolelli Ferrera, op. cit., pp. 166, 171)
Per fuggevoli e scarsi che fossero i suoi indizi della primavera - una nuvola o un filo d’erba nel cortile del passeggio - era cosa certa che anche un taciturno come lui ci si doveva abbandonare con struggimento. (Pavese, Cesare, Il carcere, Torino, Einaudi, 2007, p. 76)
Immagine di copertina: Vincent van Gogh, La ronda dei carcerati (part.), 1890, dall'incisione di Gustave Doré Newgate: The Exercise Yard, in G. Doré; B. Jerrold, London: A Pilgrimage, London, Grant, 1872.
Immagini (dall'alto al basso, da sinistra a destra): Carcere di Regina Coeli, Roma, 1947, foto Istituto Luce; Carcere di Regina Coeli, Roma, foto Cronache della Campania/F. Villa; Carcere di Santo Stefano (Ventotene), foto Articolo 21; Carcere di Santo Stefano (Ventotene), foto Base Nautica Flavio Gioia; Casa Circondariale S. Maria Maggiore, Venezia, foto Antigone-Next New Media; Casa Circondariale Sergio Cosmai, Cosenza, foto Corriere.it; Ex-carcere Fornelli, Asinara, 2016, foto Museo del Camminare; Ex-carcere Sant'Agata, Bergamo, foto FAI.
1. Riforma dello Statuto dette Stinche, 1514, cap. xxi, cit. in M. Beltrani Scalia, Sul governo e sulla riforma delle carceri in Italia, Torino, Favale, 1867, pp. 194-5; nota 3, p. 283.
2. ‘Legge 26 luglio 1975’, n. 354, Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Serie Generale, n. 212, 9 agosto 1975.
3. European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT), 2nd General Report on the CPT’s activities, Strasbourg, 13 April 1992, p. 13, URL: https://rm.coe.int/1680696a3f)
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